L ’Edizione
Nazionale del Petrarca
e le edizioni fatte con le forbici
Sul
“Corriere della sera” del 3 marzo 2000, in prima pagina,
Armando Torno ripropone la questione dell’edizione dei classici italiani,
rappresentandola in maniera moderatamente drammatica: non esiste uno
scaffale di biblioteca o di libreria che comprenda tutti in fila e
in unica collezione gli scrittori della nostra nazione; le edizioni
nazionali procedono troppo a rilento; forse si gettano via i soldi
dei cittadini. Un disastro che nel titolo viene riassunto emblematicamente
dall’epigrafe “per Petrarca poche speranze”. Premesso che
le sterminate collezioni realizzate a gara col tempo hanno un odore
funerario e una qualità da ’piano quinquennale’, sento il dovere
di intervenire sul punto specifico del Petrarca, auspicando che altri
colleghi rispondano pubblicamente sulle edizioni di loro pertinenza.
Già
in altre occasioni, nel supplemento letterario del “Sole-24 ore”,
sono usciti attacchi all’edizione nazionale delle opere del Petrarca.
Si è accusato la Commissione di lentezza e di inefficienza,
e si è garbatamente additato al pubblico disprezzo un gruppo
di studiosi innominati, i quali sotto l’ombrello dello Stato non concludono
nulla, mentre fuori, nel campo della libera iniziativa, sì
che il Petrarca si studia e si pubblica, onorando l’Italia e la sua
migliore cultura. Le critiche vecchie e nuove esigono un chiarimento
pubblico. Perché, se fossimo di fronte all’ennesimo spreco
italiano, la denuncia avrebbe tutte le sue sacrosante ragioni. Ma
poiché così esattamente non è, non sarà
inutile spiegare ai non addetti ai lavori di che si tratta.
Della
“Commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Francesco Petrarca” chi scrive ha da tre anni il pesante onore di fungere
da presidente, dopo il vuoto lasciato da Augusto Campana e ora anche
dal presidente onorario Giuseppe Billanovich, decano e maestro degli
studi petrarcheschi in Italia e nel mondo. La Commissione fu provvidamente
istituita con legge dello Stato italiano n° 365 dell’11 luglio 1904,
in occasione del sesto centenario della nascita del poeta; e da allora
essa ha visto all’opera studiosi del valore di Vittorio Rossi, Pio Rajna, Remigio Sabbadini, Giuseppe De Luca, Giuseppe Billanovich,
Giorgio Pasquali, Guido Martellotti, Umberto Bosco, Concetto Marchesi,
Augusto Campana, per ricordare alcuni fra i più insigni. Il
piano iniziale dell’opera comprendeva venti volumi. Perché
uscisse il I volume bisognò aspettare 22 anni: fu infatti nel
1926 che apparve l’edizione dell’Africa, a cura di Nicola Festa.
Per avere il volume successivo occorse attendere ancora altri sette
anni: nel 1933 apparve il I volume delle grandiose Familiari curate
da Vittorio Rossi; il IV ed ultimo, vide la luce postumo nel 1942:
lo portò a buon fine Umberto Bosco, che già aveva aiutato
il maestro nella ricerca delle fonti. Fra piena guerra (1943 XXI)
e Liberazione (20 luglio 1945) uscirono miracolosamente i Rerum
memorandarum libri curati dal Billanovich. Ancora una lunga pausa
di un ventennio nell’Italia repubblicana: si arriva al 1964 per vedere
il I volume del De viris illustribus curato dal Martellotti.
Poi più nulla. Questi sette cospicui volumi - voglio subito
rassicurare i lettori - non sono, come afferma Torno, né poca roba né
da rifare. Da rifare è certo l’Africa
di Festa, ma non per invecchiamento: da rifare perché, come
videro immediatamente recensori della statura di Eduard Fraenkel,
era nata male; e nata male perché l’ostetrica si chiamava ansia
di presentare a Sua Maestà Vittorio Emanuele III re d’Italia
il “poema della vittoria mediterranea di Roma”. Gli altri
sei volumi non vollero ascoltare altra sirena che la scienza, e restano
monumenti che fanno rispettata la filologia italiana nel mondo. E
tuttavia ciò pare poco a fronte delle aspettative.
I
volumi finora usciti sono stati pubblicati dall’Editore Sansoni di
Firenze, che è quanto dire Giovanni Gentile. Coloro che finora
hanno avuto la fortuna di portare a compimento l’edizione del testo
loro assegnato hanno avuto espressioni di gratitudine non formale
per Gentile e per il sostegno da lui ricevuto. E non v’è dubbio
che i frutti migliori della Commissione siano maturati all’ombra variamente
protettrice di Gentile nella sua figura pubblica di ministro e professore
e in quella privata di imprenditore. Ma anche nell’èra, diciamo
per brevità, gentiliana le pause sono state lunghe. La storia
dell’edizione nazionale del Petrarca è una storia di non-finiti:
Enrico Bianchi lavora per 50 anni alle Epistole metriche e non arriva
alla pubblicazione; Alberto Del Monte pubblica uno studio sull’intera,
sterminata tradizione del De remediis utriusque fortune e poi
non lascia altra traccia. Don De Luca rassicura l’impaziente Gentile
di avere collazionato decine delle centinaia di manoscritti dei Salmi
penitenziali e dopo anni di intenso lavoro getta la spugna. Basta
guardare non i carteggi della Commissione, ma solo i programmi editoriali:
troviamo via via impegnati i migliori nomi della cultura e della filologia
italiana, Aurelio Roncaglia, Giuseppe Rotondi, Salvatore Battaglia,
Giorgio Pasquali, Pier Giorgio Ricci, Arnaldo Foresti, Alfredo Schiaffini,
Carlo Dionisotti. Nessuno di questi uomini ha prodotto l’edizione
critica assegnatagli. Ma il loro lavoro non è stato buttato
via: anche se non sempre c’è un formale passaggio del testimone,
spesso il risultato delle ricerche parziali è la base da cui parte il
lavoro di chi viene dopo. E tuttavia per chi ha investito energie
intellettuali e magari la vita intera, di sconfitte si deve parlare.
Perché questa lunga serie di sconfitte? Solo per debolezza
costituzionale delle strutture culturali dell’Italietta liberale,
fascista o repubblicana? Per inconcludenza razziale degli italiani?
Prendiamo
un esempio fuori d’Italia, mettendo il naso nelle cose della grande
e ipercostruttiva Germania. I Carmina Burana , che non hanno
bisogno di essere presentati come una delle costruzioni culturali
più grandi della storia umana, furono scoperti nel 1803. Da
allora generazioni di studiosi si sono misurati con testi affascinanti,
ma insidiosi nella loro apparente semplicità. La prima edizione
completa uscì solo nel 1847. Ma ben presto apparve chiaro che
bisognava rifarla con altra tempra scientifica. Vi si dedicò
il grande Wilhelm Meyer, senza portarla a compimento. I suoi studi
preliminari passarono nelle mani di Alfons Hilka e Otto Schumann,
che dopo decenni di lavoro diedero due volumi nel 1930 (I 1 e II 1).
Poi Hilka passò a miglior vita e Schumann restò solo:
il terzo volume (I 2) fu da lui realizzato solo undici anni dopo,
nel 1941. Ma per vedere il quarto (I 3) occorse aspettare altri
trent’anni,
quando nel 1970 Bernhard Bischoff raccolse e curò l’eredità
di Schumann. Ora anche Bischoff è morto e l’edizione dei Carmina
Burana non è ancora compiuta. Nessuno in Germania si scandalizza
di ciò. Tutti gli editori pubblicano antologie dei Carmina
Burana, dichiarando onestamente di attingere all’edizione critica.
Ma nessuno si sogna di rimproverare la casa editrice Carl Winter,
Universitätsbuchhandlung di Heidelberg, per la lentezza con cui
procede. I tedeschi sono abituati ai tempi lunghi: continuano a costruire
il duomo di Colonia da seicento anni e sono orgogliosi di farlo. Forse
nemmeno pensano di compierlo mai.
Il
punto è che molte persone, anche di elevata formazione culturale,
continuano a ritenere, magari in buona fede, che il lavoro del filologo
sia qualcosa che ha che fare col sognare e abbracciare le nubi, che
fare i libri sia una mera questione di tipografia (ora di computer)
e che fare le edizioni sia una faccenda da risolvere con forbici e
colla. Purtroppo esistono anche molti pirati in giro, i quali rubano
le edizioni che ad altri sono costate una vita di lavoro e le riproducono
in quattro e quattr’otto e, sfruttando una legge ambigua e opportunismi
vari di mercato, impunemente, senza apparato critico (cioè
senza il sistema di riferimenti alle fonti - autografi, codici, stampe
- e alla discussione scientifica), come fossero proprietà di
nessuno. Costoro per lo più realizzano guadagni commerciali
sulla pelle delle edizioni critiche che per il loro costo e la per
la difficoltà di uso da parte del comune lettore sono invendibili;
e inoltre accreditano nell’opinione pubblica l’idea errata e socialmente
- come si vede - pericolosa che le edizioni critiche si possano fare
con un “apriti sesamo”. È veramente curioso che nessuno si
sia sforzato di far capire che lo studio e l’edizione delle fonti
culturali di un paese sono cose che costano. Costano biblioteche,
microfilm e fotografie, istituti specifici, viaggi, strumentazione
tecnica, persone che devono vivere e mangiare per fare quel lavoro.
Non so se qualcuno sappia che edizioni dei Trionfi del Petrarca
ne esistono a centinaia in giro, tutte uguali o quasi, perché
l’una copiata dall’altra; ma che per fare l’edizione critica dei Trionfi
occorre vedere e studiare oltre seicento manoscritti, che per vedere
questi manoscritti occorre girare il mondo intero, che lo studio codicologico
e paleografico e poi la collazione sistematica del testo di quei seicento
manoscritti sfracellerebbero qualunque cervello, che dopo aver collazionato
uno per uno i seicento manoscritti occorre valutare le lezioni raccolte,
e questo non può farlo nessuna macchina, ma solo il giudizio
umano. Talché, l’edizione critica dei Trionfi, quando
si farà, sarà una di quelle cose inutili che l’ardire
umano non può ammettere di non saper fare, più o meno
come scrivere Il sabato del villaggio, o approdare sulla luna,
andare in slitta al Polo Nord o realizzare un record sportivo: insomma
una pura conquista della scienza e dell’intelligenza individuale e
sociale. È per questo che i filologi diffidano delle edizioni
fatte in fretta, e ritengono che il nostro buon nome non lo salvino
all’estero le collane di assemblaggio, ma le singole edizioni sparse:
e fra queste c’è quella delle Familiari di Vittorio
Rossi.
La
Commissione petrarchesca è stata in un secolo di vita la fucina
della migliore filologia italiana, quella che grazie alla natura anfibia
del suo oggetto ha operato su due lingue diverse, l’italiana e la
latina. La universalità del personaggio Petrarca ha imposto
una concezione stessa degli studi sovranazionale. Se oggi possiamo
presentare legittimamente Petrarca come uno dei fondatori dell’Europa
si deve al respiro degli studi imposto dalla Commissione petrarchesca.
È vero che dal 1964 la Commissione non ha prodotto più
ufficialmente edizioni di opere del Petrarca: ma intorno alla
Commissione e sotto la sua egida Billanovich ha costruito il suo colossale
Censimento dei codici del Petrarca, giunto al 12° volume, che è
uno strumento di lavoro in tutte le biblioteche del mondo e non solo
per la ricerca petrarchesca; e sono tutti studiosi incaricati di edizioni
dalla Commissione quelli che in questo dopoguerra hanno rivoluzionato
la figura e la conoscenza del Petrarca, fondando due riviste che hanno
pubblicato 29 volumi di studi, scoprendo in biblioteche italiane tedesche
spagnole americane e inglesi libri, poesie, autografi, annotazioni
sconosciute di Petrarca: cose che qualche volta hanno dato un fremito
di emozione anche al grosso pubblico. I padri storici della Commissione
pensavano a mezzo volume dedicato a raccogliere annotazioni di Petrarca
ai suoi libri. Noi ci accingiamo a programmare, dopo una fase già
acquisita di sperimentazione, venti grossi volumi di annotazioni sparse,
mai finora nemmeno pensati.
Ben
vengano le critiche, se servono a chiarire tutto questo. La Consulta
per le edizioni nazionali, istituita per volontà dell’ex-ministro Veltroni, è un ottimo passo verso l’acquisizione alla coscienza
pubblica di un problema che non può essere eluso. Personalmente
mi auguro che ci aiuti tutti a uscire, anche nelle scienze storiche,
da un pur generoso e intelligente volontaristico artigianato.
La
mia presidenza ha inaugurato il metodo di rendere pubblici anche e subito
eventuali risultati parziali. Così, dopo un silenzio trentacinquennale,
si è potuto pubblicare in un rigoroso e gradevole libretto la
importante lettera senile V 2 (a cura di M. Berté, Firenze, Le
Lettere, 1998, pp. 104, tavv. 4 f. t.). Colgo infine l’occasione per
annunciare pubblicamente che è impegno della Commisisone, già
preso nelle sedi opportune, di allestire per il 2004, aniversario della
nascita di Francesco Petrarca, una edizione compatta di tutto Petrarca,
accompagnata da traduzione italiana. Questa edizione ha l’ambizione
di raccogliere e sistemare tutta l’eredità di lavoro critico
di un secolo in un’opera provvisoria e intermedia. Un’impresa del genere
non si realizza in Europa dal 1581. Non sarà un’edizione critica,
ma riteniamo di avere le carte in regola per fare quella che al momento
appare come l’edizione migliore possibile. Essa intende liberarci tutti
da una frustrazione da eccesso di ascetismo, e vuol provare anche a
venire incontro a quell’esigenza giusta - ma che avrebbe bisogno di
altro e lungo discorso - esigenza che Torno ha chiamato di ’pubblico’.
All’iniziativa hanno dato la loro adesione 24 studiosi italiani giovani
e meno giovani, mossi solo da tenue speranza di gloria, non certo di
guadagno. Un folto gruppo di amici tedeschi è già pronto
a tradurre l’intera opera nella loro lingua. Speriamo che la fortuna
non ci sia avversa e attendiamo gli editori che vogliano rischiare e
sognare con noi 1.
Michele Feo
Post-scriptum.
L’edizione
critica è un prodotto dell’ingegno umano. Ci sono opere di
cui esiste una vulgata acquisita da secoli e sostanzialmente ferma
(è il caso della Commedia di Dante o dell’Eneide
di Virgilio), ma ci sono opere di cui solo in epoca recente è
stato costituito il testo critico e opere di cui il testo critico
non si possiede ancora. Mi aiuterò con un esempio tratto dalla
mia personale esperienza. Il testo dell’epistola di Petrarca a Markwart,
così corrotta nei manoscritti e nelle edizioni da essere dai
più ritenuta non autentica, perché stilisticamente ’non
petrarchesca’, è stato dal sottoscritto ricostruito in un paio
di anni di lavoro in una forma critica del tutto nuova e tale anche
da autorizzarne, credo fondatamente, la restituzione al legittimo
proprietario. Nelle 72 pagine in cui si rende conto del lavoro in
questione (Francesco Petrarca e la contesa epistolare tra Markwart
e i Visconti, in Filologia umanistica. Per Gianvito Resta,
Padova 1997, I, pp. 621-692), il testo critico dell’epistola petrarchesca
occupa appena 62 righe: tutto il resto dello spazio è occupato
dall’esposizione delle vie e delle ragioni che hanno portato a quel
risultato.
Ora,
sostenere, come ebbe a fare il rappresentante di una casa editrice,
che il testo critico sia proprietà di tutti, perché
è opera di Petrarca il quale è vissuto tanti secoli
fa da annullare ogni diritto d’autore, è un errore della ragione
il quale ha dei riflessi perversi sul diritto di proprietà
letteraria. Non so se Petrarca, tornando in vita per fare un favore
a uno che gli ha dedicato molta parte della sua esistenza, sarebbe
così gentile da riconoscere per suo quel testo della polemica
col vescovo Markwart come ricostruito nella Miscellanea Resta. Se
lo facesse, sarei orgoglioso di essermi approssimato tanto alla ’verità’
da averla raggiunta, e volentieri rinuncerei alla mia proprietà
letteraria per la vanagloria di poter dire: ho ripulito un testo corrotto
e l’ho rifatto proprio come sei secoli e mezzo or sono uscì
dalla penna del suo autore. Ma dubito che ciò avverrebbe; anzi
paventerei il ritorno del Poeta, perché potrebbe dimostrare
incongrue le mie congetture e poco razionale il mio stemma codicum:
potrebbe rivelare cioè quanto ipotetici e fragili siano i nostri
armeggiamenti scientifici. La verità è che il testo
critico appartiene al filologo almeno quanto appartiene all’autore,
se non forse più al filologo che all’autore.
Ma
nella prassi editoriale corrente in Italia ognuno prende i testi critici
di autori antichi dalla parte che più gli aggrada. Rari e inascoltati
sono quelli che trovano il metodo scorretto. Normalmente si tace per
quietitudine e forse anche perché si pensa opportunisticamente
che oggi a te e domani può capitare a me. Salvo che una volta
a qualcuno che ne abbia il potere non venga in mente di avviare un
processo bonificatore vendicativo o giustizialista. Ancora un esempio
per restare dentro il nostro tema, che è Petrarca. Una gloriosa
casa editrice ha realizzato in CD-ROM quella che viene presentata
come “la prima edizione completa dell’opera petrarchesca dopo
le edizioni basileesi del XVI secolo”. In questo disco sono stati
tranquillamente acquisiti tutti i testi critici prodotti e pubblicati
dalla Commissione per l’Edizione nazionale delle Opere di Francesco Petrarca, senza che nessuno abbia sentito il bisogno di chiedere il
consenso della Commissione stessa o anche solo di darne avviso o di
inviare in dono di cortesia una copia dell’opera, che si vende a fior
di milioni. Fra i testi acquisiti nel CD-ROM c’è anche un’epistola
metrica del Petrarca da me scoperta e pubblicata in un lavoro più
che biennale di ricerca condotto in Germania con sacrificio personale,
a spese della Alexander von Humboldt-Stiftung di Bonn. Ho ricevuto
lo stesso trattamento della Commissione. Ma non è finita: a
p. 2 dell’opuscolo che accompagna il detto CD-ROM si rende conto del
copyright e si avverte che “è vietata la riproduzione,
anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata”. Mi chiedo ingenuamente:
ciò vuol dire che, secondo i curatori di quest’opera e secondo
la casa editrice, la Commissione petrarchesca è interdetta
dall’uso e dalla riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo,
dei testi per preparare i quali sono state spese energie private e
pubbliche in un secolo intero? Significa che il sottoscritto, a termini
di qualche bizzarria di copyright conquistato con lo scanner, è
interdetto dall’uso della sua edizione dell’epistola metrica conquistata
con più di una lacrima e di una goccia di sangue?
Riteniamo
che di tali questioni il legislatore dovrebbe finalmente prendere
atto. È giunta l’ora che la teoria e l’uso del diritto d’autore
tengano conto del diritto dell’editore critico. Detto in termini semplici,
noi vorremmo che il legislatore ponesse qualche ordine nella giungla
della proprietà delle edizioni. Si nomini una commissione di
esperti che rediga uno studio sulla questione e faccia proposte al
governo al fine di una nuova e moderna regolamentazione del diritto
d’autore che tenga conto del diritto del filologo, o se non pare eccessivo,
del filologo-autore.
«Il Ponte», LVI, n° 4 (aprile 2000),
pp. 149-155
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1
Il presente scritto è
stato inviato tempestivamente alla direzione del “Corriere della
sera”, che si è però liberalmente rifiutata di pubblicarlo.
Si stampa qui con l’aggiunta del post-scriptum. Ringrazio il
direttore del “Ponte” Marcello Rossi per la sensibilità
e la sollecitudine dimostrata, nella tradizione di uno stile di apertura
al dibattito democratico senza pregiudizi.
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